Dopo i fatti del 15 ottobre, chi come noi si sente parte attiva del movimento e ha partecipato fin dall’inizio alla costruzione della giornata, ha il dovere di farsi carico di tutto ciò che è accaduto, nel bene e nel male, evitando di etichettare tutto superficialmente come una questione di ordine pubblico e avviando un dibattito di movimento che sia pubblico e trasparente.
Nella giornata internazionale “United for a global change” lanciata dagli indignados spagnoli, di 951 manifestazioni in tutto il mondo, quella italiana è stata di gran lunga la più grande.
500 mila persone hanno invaso da tutta Italia le strade di Roma per gridare la loro opposizione a un modello sociale ed economico in crisi, le cui contraddizioni vengono scaricate quotidianamente sulla vita di tutti noi. 500 mila tra studenti, lavoratori, spesso precari, disoccupati, giovani e anziani, consapevoli della propria condizione e che nel tempo della crisi hanno scoperto come questa sia intimamente connessa al sistema economico in cui viviamo e alla dittatura finanziaria che distrugge ambiente, welfare, beni comuni, speranza.
500 mila, indignati, incazzati o cos’altro? Sicuramente ci indigna l’arroganza di un potere che si nasconde dietro le alchimie indecifrabili della speculazione finanziaria, al riparo da ogni sguardo democratico; ci fa incazzare l’apatia di una politica incapace di immaginare una realtà diversa da quella della cieca obbedienza ai poteri economici, e vogliamo superare ogni artificiale etichetta per cambiare una volta per tutte questo paese e questo mondo, convinti che un’altra Italia e un altro mondo siano possibili, necessari e non più rimandabili. Non ci interessa riproporre in Italia gli stessi modelli di mobilitazione ripresi dalla Spagna o dagli Stati Uniti. Acampadas, occupywallstreet, cortei nelle città, occupazioni, blocchi metropolitani: al di là delle definizioni, ci unisce la voglia di riprenderci uno spazio pubblico in cui rendere visibile il nostro dissenso nei confronti del sistema economico dominante, in cui aggregare chi condivide il nostro bisogno di cambiare le cose, in cui costruire un’alternativa basata sulla democrazia reale e sulla giustizia sociale.
Non siamo “come gli spagnoli”, “come gli americani” o “come i greci”: siamo parte dello stesso movimento, un movimento che può davvero diventare mondiale.
Il corteo che è partito da piazza della Repubblica aveva, per dimensioni e composizione, pochi precedenti negli ultimi anni. Una folla oceanica e composita, radicata nella realtà di chi vive quotidianamente sulla propria pelle gli effetti dell’austerity. In piazza a Roma c’era il 99%, c’era chi l’anno scorso ci applaudiva dai finestrini mentre bloccavamo strade e stazioni, c’era un popolo che riprendeva parola. E non è successo per la magia dell’evocazione mediatica, né per qualche clandestina cospirazione globale. La composizione di un fronte sociale ampio, in grado di costruire contro l’austerity un consenso ampio e trasversale, è il frutto delle mobilitazioni dell’ultimo anno: gli studenti contro la riforma Gelmini, i lavoratori contro il modello Marchionne, i movimenti per la ripubblicizzazione dell’acqua, hanno dimostrato che è possibile avanzare piattaforme radicali e innovative, conquistare intorno ad esse un consenso generalizzato e incidere profondamente sulla realtà concreta del nostro paese.
Quando siamo partiti da Piazzale Aldo Moro, in oltre 50 mila, noi studenti eravamo quelli dello scorso anno, un grande movimento per la costruzione di un’altra scuola, un’altra università, un’altra società, un movimento che sa praticare il conflitto con determinazione e cerca con intelligenza il più vasto consenso possibile.
Quando ci siamo riuniti con il resto del corteo, a Piazza dei Cinquecento, quando abbiamo visto intorno a noi quella normalità incazzata in mobilitazione, ci siamo sentiti immediatamente parte di quel popolo, di una ritrovata collettività: eravamo il 99%, pronti a dare voce al nostro desiderio di cambiamento.
Poche centinaia di metri dopo, quando abbiamo visto le auto incendiate in via Cavour e abbiamo avuto notizia che il corteo fosse stato irresponsabilmente spezzato in via Labicana, abbiamo compreso che l’intento politico di un piccolo pezzo del corteo non era costruire una grande giornata di lotta in connessione con le battaglie di tutta Europa, ma di segnare con forza l’assenza di ogni condivisione democratica delle pratiche di piazza, di ogni ricerca di sintesi possibile rispetto alle pratiche e al conflitto da esprimere.
Chi ha fatto ciò ha dimostrato con chiarezza di non avere alcun interesse a costruire un movimento di massa che dal giorno dopo potesse dare avvio ad una nuova fase di resistenza globale. Le giornate del 15 Ottobre in tutto il mondo ci parlano di grandi mobilitazioni, con tantissima gente che è riuscita, tutta insieme, a dare vita ad una giornata di speranza, di rabbia e di cambiamento. Invece una parte, piccola ma visibile, degli uomini e delle donne che erano in piazza con noi, ha rifiutato di essere parte di quel popolo ampio, e ha preferito rinchiudersi in dinamiche gruppettare e autoreferenziali.
Stavolta il punto non sono tanto, o comunque non solamente, le pratiche utilizzate. Sono anni che i movimenti si interrogano sul tema delle pratiche, anche in maniera eterogenea. La nostra riflessione è sempre stata di riconoscenere nel conflitto e nella democrazia il sale del nostro agire politico. Per noi il conflitto ha sempre avuto l’obiettivo chiaro di aprire nuovi spazi di miglioramento sostanziale delle condizioni di vita della gente, costruire nuovi diritti, opporsi con radicalità a questo modello di società dimostrando che nelle piazze, nelle scuole e nelle università siamo già capaci di praticare un modello diverso da quello della violenza del potere che ogni giorno viene perpetuata a danno di studenti, precari, lavoratori, cittadini. Un conflitto che quindi rifugge una rappresentazione estetica, falsamente radicale, che invece pratica un obiettivo da raggiungere e che si interroga su come orientare il consenso dei tanti oppressi e sfruttati di questo Paese, Non abbiamo mai capito che contributo possa dare al cambiamento bruciare le macchine o sfasciare le vetrine, ma stavolta non si tratta neanche più di questo. Stavolta quelle pratiche, in via Labicana, sono state apertamente utilizzate contro il corteo, contro chi l’ha organizzato, contro il movimento che ne sarebbe scaturito.
Ciò che è accaduto in via Labicana non è accettabile per noi: gruppi che si staccano dal corteo, devastano tutto ciò che arriva a tiro e tornano indietro, nascondendosi nel corteo stesso e attirandovi la reazione di una polizia già pronta a dare la peggiore visione di sé. Chi ha fatto questo doveva avere ben chiaro ciò che stava facendo e le conseguenze che avrebbe prodotto. Altro che palazzi del potere, ad essere attaccato è stato il corteo. Si è scelto di devastare il percorso, impedendo a centinaia di migliaia di persone di prendere parola, di finire il corteo, di caratterizzare la giornata nelle proprie modalità. Questo è il dato fondamentale dal punto di vista politico. Ed è sulla politica che il movimento deve interrogarsi. Queste pratiche sono per noi inaccettabili, ma qui si è di fronte a qualcosa di ancora più grave: in via Labicana si è consapevolmente deciso di far saltare il corteo, per evitare che potesse arrivare in piazza San Giovanni. E’ una violenza strumentalizzare un corteo di massa ed eterogeneo, imponendo tutta la propria arroganza minoritaria. La risposta è la democrazia.
Da lì in poi, com’è naturale, ci sono molti film diversi, che bisogna stare attenti a non confondere. Via Labicana e Via Cavour è una storia diversa da San Giovanni. Deve vergognarsi chi ha consapevolmente dato avvio a una devastazione insensata e autolesionista, non certo chi, in una fase successiva, ha subito l’accanita reazione della polizia e si è difeso come ha potuto. Chi si è ritrovato a Piazza San Giovanni in Laterano ha subito cariche violentissime e ha reagito. Chi ha risposto attivamente, chi si è rifugiato nella Basilica e chi è rimasto in piazza a mani alzate è stato vittima allo stesso modo di una gestione di piazza sconsiderata da parte della polizia, che ha proceduto con cariche scomposte utilizzando le camionette e un numero elevatissimo di lacrimogeni contro tutti i manifestanti, ha fatto caroselli in piazza e picchiato manifestanti inermi. E non sono le vittime a dover essere giudicate. Rifiutiamo anche la rappresentazione mediatica di questi giorni. Stampa e TV hanno contribuito a far salire enormemente la tensione prima del 15 ottobre, mentre il giorno dopo hanno scelto di raccontare solo una parte del corteo, mentre centinaia di migliaia di persone sfilavano ancora e davano vita ad una straordinaria giornata.
Il punto che ha segnato negativamente la giornata, lo dicevamo, è via Labicana. Lì il corteo è stato coinvolto in scontri, per una scelta, marginale e minoritaria, nei numeri e nella politica. Mentre noi contestavamo BCE e austerity, alcune centinaia di persone decidevano di contestare il corteo, di scegliere il resto del corteo come nemici.
Il terreno fertile che ha permesso tutto ciò è sedimentato anche grazie a chi, pur con obiettivi di natura completamente differenti, in queste settimane ha rifiutato di discutere con lealtà e correttezza con le altre realtà in lotta e in mobilitazione. Noi abbiamo sempre creduto in un’alleanza ampia, sociale, che pur nelle differenze politiche potesse trovare punti d’incontro comuni, non solo legati agli aspetti organizzativi del corteo. Altri, invece, non vogliono che rappresentare se stessi e le proprie posizioni, creando inutili contrapposizioni su “chi è più radicale”. Nel percorso di costruzione del 15 ottobre pochi hanno rinunciato a guardare al proprio orticello, spesso rinsecchito, in troppi hanno rinunciato a contribuire a uno spazio pubblico che consentisse l’apertura di una fase di spontaneismo e mobilitazione, preferendo il posizionamento tra aree alla costruzione collettiva di un movimento di massa. Questo è un gioco che non ci interessa e a cui noi non vogliamo partecipare. Vogliamo invece rilanciare un movimento ampio e plurale, che sappia coinvolgere e far partecipare, dando una reale possibilità di discutere, decidere, analizzare, elaborare agli studenti, ai lavoratori, ai cittadini che erano in piazza il 15 Ottobre e a quelli che non sono ancora scesi in piazza, che sono ancora delusi, che non si sono ancora mobilitati.
La polemica strumentale – non quella sincera di alcuni, sia chiaro – è stato alla base di quel che è successo. In questo modo il coordinamento 15 ottobre, che doveva essere uno spazio al servizio della partecipazione popolare di massa, è diventato lo spazio per la delegittimazione reciproca, che poi si è rispecchiata in piazza. E così il 15 ottobre, prima grande data di mobilitazione internazionale da molti anni a questa parte, si è trasformato da potenziale innesco di un vasto e radicale movimento popolare per il cambiamento è stato ridotto a cieco sfogo senza progettualità politica e di uno scontro insensato contro il resto del movimento, sulla pelle dei 500 mila che sono scesi in piazza e di quel 99% della popolazione che del cambiamento ha bisogno come dell’aria che respiriamo.
Nonostante la diffusa retorica sull’evitare un corteo tradizionale, tutto o quasi si è tradotto in un film già visto: un tentativo di ricostruire in vitro dinamiche ben più complesse, che si è dimostrato nei fatti molto differente anche dal 14 dicembre dello scorso anno. Allora erano emerse contraddizioni significative sulle pratiche di lotta, ma all’interno di una mobilitazione in cui si condividevano gli obiettivi politici e di piazza. In questo caso, invece, una piccola parte dei manifestanti ha fatto del resto del corteo il proprio obiettivo, utilizzando strumentalmente la manifestazione come un palcoscenico per la propria visibilità. Farebbe sorridere, se non fosse per la gravità dell’accaduto, che, con la scusa di far saltare presunti recinti di rappresentanza del movimento, alcuni abbiano di fatto imposto, a tutto il corteo, la propria rappresentazione, che si è dimostrata nei fatti assolutamente minoritaria. Un’avanguardia senza popolo, né più né meno di quel Parlamento che voleva delegittimare.
Se non era il movimento l’obiettivo, allora davvero non abbiamo capito qual era. Il 15 ottobre, potenzialmente un grande passo avanti verso il cambiamento, rischia ora di trasformarsi in un passo indietro, se non sapremo reagire e rilanciare una mobilitazione di massa. La parte più piccola e allo stesso tempo più visibile del 15 Ottobre non può cancellare questi anni straordinari di lotte, di vittorie, di speranze, di spazi di legittimità conquistati. Non accetteremo mai passivamente alcuna ondata repressiva e securitaria generalizzata. Il cambiamento è ancora possibile, milioni di persone in tutto il mondo in piazza testimoniano che questa è la fase globale per rifiutare davvero il neoliberismo e le sue ingiustizie.
Di tutto questo, per chi avesse avuto voglia di vedere oltre la cortina mediatica e dei lacrimogeni, si è già avuto un assaggio il 15 ottobre: lo spezzone studentesco era partito enorme e determinato, da piazzale Aldo Moro con l’idea di arricchire la giornata, in linea con i percorsi dell’ultimo anno e con quello che avviene in giro per il mondo, praticando forme di conflitto radicali, creative e inclusive come il corteo selvaggio, il blocco pacifico della circolazione, l’acampada… Ciò non è stato, nei fatti, praticabile, con la situazione di piazza che si era creata. Paradossalmente, il nostro corteo è stato ridotto, seppur in parte, a una delle tanto vituperate sfilate per le strade.
Nonostante ciò abbiamo continuato a riportare la determinazione con cui eravamo partiti dalla Sapienza nelle strade di Roma. Il nostro corteo non si è mai fatto fermare, da niente e da nessuno, e ha anzi raccolto decine di migliaia di manifestanti dispersi dalle cariche, coinvolgendoli in un percorso non autorizzato che permettesse al 15 ottobre di proseguire e continuare a esprimere i suoi contenuti.
Una volta di più, abbiamo dimostrato come il desiderio di cambiamento delle studentesse e degli studenti sia in grado di riempire le strade e le piazze. I nostri book bloc sono diventati la testa di un nuovo corteo del 15 ottobre, l’unico in grado di non farsi fermare e mantenere la sintonia con la mobilitazione internazionale. Ci siamo ripresi la città e l’abbiamo attraversata, tornando a occupare la tangenziale, come il 22 dicembre 2010, rilanciando nei quartieri di Roma la nostra indignazione, la nostra voglia di cambiare, la nostra rabbia.
La rabbia, del resto, non è un sentimento esclusivo di alcuni. Siamo tutti arrabbiati, perché siamo tutti precari, tutti viviamo sulla nostra pelle un presente oppressivo e un futuro invisibile. Siamo dentro anni difficili, la crisi morde, la rabbia emerge sempre più forte, ma come abbiamo sempre affermato crediamo che la rabbia non sia una categoria politica, e che sia un sentimento più vicino alla sconfitta e all’impotenza che al bisogno di cambiare che noi tutti abbiamo. La rabbia c’è, ma non può essere l’unica chiave di lettura di qualsiasi cosa. Dobbiamo avere l’onestà di dirci che la rabbia, soprattutto quella di ragazzi giovanissimi, deve farci riflettere sulla realtà del nostro presente, ma non può essere la base su cui costruire il futuro.
Per noi la rivolta è rivoltare i rapporti di forza, oggi sproporzionati a favore di quell’1% che ci governa. Tutto quello che si produce nei luoghi in cui portiamo conflitto, o contribuisce all’inversione di tali rapporti di forza, conquistando un terreno di consenso e allargando lo spazio di possibilità del cambiamento, oppure è parte del problema e non della soluzione. Dobbiamo avere il coraggio di dirlo chiaramente: quello che è successo è stato il punto debole della mobilitazione, ne ha ridotto l’efficacia, ne ha limitato l’enorme potenziale di aggregazione e rilancio. O crediamo davvero che devastare le strade di una città sia un modo razionale e lungimirante di conquistare il consenso dei suoi abitanti?
Davanti a governi di centrodestra o politici dell’opposizione che lasciano che a definire la linea sulla politica economica, il welfare e le privatizzazioni sia una lettera di due individui (Trichet e Draghi), privi di alcun mandato democratico, la risposta doveva e dovrà essere un grande movimento di massa, in grado di minare alle fondamenta il consenso intorno all’attuale sistema di governance politica ed economica e crescere costantemente, nei numeri, nel consenso, e nella forza, uscendo dall’episodicità del fenomeno, e investendo tutte le sue energie nel processo di cambiamento.
Siamo consapevoli che questo processo si svolge nel deserto della politica tradizionale, le cui residue macerie sono spazzate via dalla crisi. Ma i 500 mila del 15 ottobre, come i 27 milioni di cittadini che hanno votato i referendum di giugno, ci dicono che i movimenti degli ultimi anni hanno seminato, che l’assenza di alternativa all’esistente che gran parte della politica assume come dogma trova nella società un radicale dissenso e la determinazione ad agire.
Ancora una volta i soggetti sociali, e gli studenti in particolare, hanno la responsabilità di scacciare la paura e rilanciare la mobilitazione. Sappiamo come farlo, abbiamo già iniziato a farlo: il 7 ottobre oltre 100 mila studenti sono scesi in piazza in tutta Italia e la scorsa settimana centinaia di universitari romani hanno partecipato a #occupiamobancaditalia, costruendo un blocco pacifico del centro cittadino capace di mettere al centro della mobilitazione i temi economici, di costituire un punto di aggregazione per il dissenso diffuso e l’aspirazione all’alternativa.
Se siamo il 99%, niente può farci paura. Ogni rabbia e ogni indignazione possono diventare strumenti di cambiamento, e nessuno come le studentesse e gli studenti incarna questa capacità. Impegniamoci a superare ogni logica di area o di cartello e a investire senza riserve mentali sul movimento studentesco. Abbiamo di fronte un’agenda politica e sociale fittissima, che richiede la nostra presenza attiva e propositiva. Dobbiamo farci carico come movimento studentesco della riapertura di una fase di mobilitazione che la partecipazione di massa al 15 ottobre dimostra essere possibile e attesa, dobbiamo assumere le difficoltà che lo strumento del grande corteo nazionale porta con sé, e dobbiamo investire su processi reali di partecipazione dal basso, forme di mobilitazione permanente che superino la tradizionale mobilitazione e riconsegnino gli spazi della città al dibattito pubblico democratico, come luoghi del dissenso e dell’alternativa.
Se siamo il 99% neanche la repressione di queste ore può farci paura. Dobbiamo rifiutare con nettezza le campagne stampa, le azioni repressive, ad un dibattito politico fatto di proposte bipartisan folli e criminali, dal daspo per i manifestanti alla reintroduzione della legge Reale, che tra le altre cose prevede la possibilità per la polizia di sparare in piazza. In questi giorni Alemanno ha proibito, mediante ordinanza, le manifestazioni nel centro di Roma, a partire dall’imminente manifestazione del comparto FIAT promossa dalla FIOM. Rifiuteremo con forza questi atti di repressione, e continueremo ad affermare il nostro diritto a manifestare e portare il conflitto nelle strade e nelle piazze di tutt’Italia.
Saremo in grado di ripartire con maggior forza e intelligenza, se di fronte alle secche del politicismo, alla follia minoritaria, e all’asprezza della crisi sapremo mettere al centro il tema della democrazia, una democrazia da riconquistare e da praticare, nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, nelle assemblee, nelle piazze.
Possiamo farlo, dobbiamo farlo, lo faremo. Nessuno ci può fermare. Siamo la speranza, siamo il 99% e non ci metteranno a tacere.