Le drammatiche vicende di questi giorni, che hanno riportato la questione dell’immigrazione al centro del dibattito pubblico, dovrebbero indurre tutti ad una presa di posizione decisa. Le stragi in mare e adesso anche sul continente continuano senza sosta e la risposta dell’Europa è spesso affidata a soluzioni di polizia: i manganelli come unica risposta ai migranti che a Ventimiglia chiedevano libertà e dignità, l’erezione di muri e filo spinato come quello ungherese e da ultimo, ma solo per completare un elenco comunque limitato, il comportamento agghiacchiante della polizia ceca nel marchiare i migranti con un numero sul braccio.Tutto questo mentre il regolamento di Dublino non viene messo mai in discussione a partire dalle sue radici che ne suggerirebbero l’abolizione più che la modifica. Quelle radici che pongono le fondamenta di una Fortezza Europa che somiglia sempre più ad una terra di apartheid tra i “nativi” del vecchio continente e coloro che fuggono dalle guerre, dai regimi, dalla fame, da un neocolonialismo di ritorno fondato sullo strapotere delle multinazionali e sulla devastazione del lavoro e dell’ambiente e di cui l’Occidente e l’ Europa hanno tuttora, e da sempre, enormi responsabilità e colpe.
Il dibattito sull’immigrazione non può prescindere da questi elementi, da una valutazione legata innanzitutto alle cause e alle responsabilità che, come democrazie occidentali, abbiamo nei confronti di questi popoli. E le nostre risposte non possono continuare ad essere chiusura delle frontiere, costruzione di muri e barriere, ghettizzazione o espulsione. In un contesto sociale e politico in cui quotidianamente si alimenta l’odio verso chi scappa da condizioni di vita inadeguate e per nulla favorevoli alla propria emancipazione ed autodeterminazione, dobbiamo recuperare un sentimento di solidarietà e cooperazione tra popoli, che provi a scardinare anche una narrazione dominante che, sfruttando la disinformazione e l’ignoranza dilaganti, nasconde dietro luoghi comuni di ogni tipo un profondo razzismo.
Ciò che i fatti di questi giorni stanno facendo emergere, compresa la marcia della libertà che dall’Ungheria ha sfidato confini e barriere, è la “nudità del re”, di un’Europa che si fonda sulla libera circolazione dei capitali, ma che condanna gli esseri umani poveri all’impossibilità di muoversi e di spostarsi. Il diritto di fuga non viene riconosciuto ai “dannati della terra”, mentre i grandi capitali migrano tranquillamente in Lussemburgo impoverendo bilanci sociali dilaniati dai tagli degli ultimi anni. La guerra tra poveri, che le nuove destre stanno alimentando, si basa su questa trappola. Non è vero che le risorse non ci sono e quindi deve essere stabilita una “preferenza nazionale” (prima gli italiani!): le risorse ci sono e solo una radicale redistribuzione di reddito e di ricchezza dall’alto verso il basso può evitare la guerra tra poveri e costruire una giustizia sociale che risponda ai bisogni e ai diritti di tutti.
E’ assolutamente necessario quindi riaprire il dibattito su quale sia la risposta che come Europa vogliamo dare alla questione. Non possiamo pensare di lasciare che singoli Stati come la Germania, dall’alto della loro forza economica costruita -vogliamo ricordarlo- sacrificando sull’altare dell’austerità senza alternativa soprattutto i Paesi del Sud Europa, prendano l’iniziativa e si facciano carico solo di una parte dei richiedenti asilo. Vanno riaffermate con forza proposte che mettano in discussione un continente la cui costituzione materiale impone allo stesso tempo tagli del welfare, riduzione dei diritti, austerità e filo spinato (più evidente nella sua brutalità nel caso ungherese, meno visibile ma ugualmente drammatico in quel mare di sangue che è diventato il Mediterraneo) per chi vorrebbe trovare in un’Europa più giusta una speranza che altrove gli è stata negata. I fatti di questi giorni hanno dimostrato che i popoli sanno essere solidali e vogliono costruire l’alternativa, i governi no. A questo si aggiungono le numerose esperienze di microaccoglienza presenti su tantissimi territori, che vanno sostenute e supportate nell’ottica di potenziamento e messa in rete di tutti questi processi che danno risposte concrete e quotidiane, lontane da populismi e proposte inutili e dannose (vedi la proposta del sindaco di Bari di far lavorare gratuitamente i migranti).
Vogliamo un’Europa della solidarietà che rifiuti austerità, vincoli di bilancio, egoismi nazionali; vogliamo un’accoglienza rispettosa dei diritti dei migranti, contro il modello di Mafia Capitale con cui profittatori senza scrupoli hanno fatto affari sulla pelle dei migranti e delle risorse pubbliche; vogliamo un’inclusione sociale vera dei migranti nella scuola, nel lavoro, nel welfare, contro leggi razziste come la Bossi-Fini che favoriscono la marginalizzazione e lo sfruttamento nelle nicchie subalterne di un mercato del lavoro neoliberale sempre più ingiusto; chiediamo con forza un corridoio umanitario che salvi vite; rifiutiamo la militarizzazione delle frontiere; rivendichiamo canali di accesso legale e sicuro in Europa contro il proibizionismo che arricchisce i trafficanti. Sosteniamo quindi con forza il diritto di ogni essere umano di muoversi e migrare attraverso i confini: casomai è la circolazione di capitali che deve subire dei limiti per garantire un welfare dignitoso per tutti.
La marcia delle donne e degli uomini che hanno attraversato i confini dell’Ungheria per giungere in Austria e Germania rappresenta la prima forte risposta di un popolo che ha deciso di ribellarsi e alzare la testa, di contrapporre alla chiusura delle frontiere il diritto a muoversi liberamente. E’ per questi motivi che sosteniamo convintamente la Marcia delle Donne e degli Uomini scalzi dell’11 settembre, lanciato a Venezia ma già riproposto in diverse città d’Italia.
Sappiamo da che parte stare, quella dell’Europa della solidarietà e della giustizia sociale, e sappiamo da che parte abbiamo deciso di non stare e di contrastare con l’impegno quotidiano e l’iniziativa sociale: l’Europa che respinge e pattuglia militarmente le frontiere e che rappresenta il vero degrado.