Nella situazione di emergenza in cui ci troviamo spesso si rischia di mettere in secondo piano la violenza di genere, la violenza omobitransfobica e le disparità economiche e sociali che derivano da un sistema patriarcale.
È in realtà fondamentale comprendere quanto queste disuguaglianze, con la crisi economica e sociale causata dalla pandemia, siano aumentate drasticamente.
Basta pensare alle condizioni già presenti prima della pandemia, a livello di politiche sociali, verso la sfera sessuale, riproduttiva, educativa:
- L’obiezione di coscienza, ancora prevista in Italia nella legge 194/78, e la difficoltà di accesso economico alla contraccezione ha reso ulteriormente inaccessibile la salute sessuale e riproduttiva delle donne durante l’emergenza, costrette spesso a spostarsi e recarsi negli ospedali mettendo a rischio la loro salute. Da un’indagine di Obiezione Respinta sappiamo che in Lombardia il tasso di obiezione di coscienza è del 66% ed è inoltre fra le regioni peggio organizzate per l’aborto farmacologico: oltre metà delle strutture lombarde offre il metodo farmacologico in meno del 5% delle interruzioni volontarie di gravidanza totali.
- Il definanziamento di consultori e centri antiviolenza, fondamentali se pensiamo solo al picco di violenza di genere e sulle soggettività lgbtq+ a cui abbiamo assistito durante la pandemia. Nella nostra regione è più che evidente visto che, nonostante la legge 194 ne preveda uno ogni 20 mila, c’è un consultorio ogni 60mila abitanti e non è detto che questo sia laico e che dia il libero accesso alla RU486.
- Tassazione come bene di lusso degli assorbenti (ancora con l’IVA al 22%) ed alto costo dei contraccettivi che continuano ad accentuare le disparità economiche. E no, non è un passo avanti per le politiche sociali diminuire l’IVA dal 22% al 5% sui prodotti biodegradabili, anzi, si basa su una politica di green-pink washing che non abbatte il problema e non agevola nessun soggetto anche dal punto di vista economico a comprarne.
- Assenza di educazione sessuale transfemminista nelle scuole, che rimangono luoghi dove c’è un’assenza di valorizzazione del contributo culturale delle donne e della comunità queer, assenza di modelli e di rappresentazione non eteronormati, dove non si fa nulla per decostruire il modello patriarcale dominante, anzi si alimenta la narrazione dello stesso, favorendo così il mantenimento dei ruoli sociali di genere che diventano fonte di modelli, canoni e stereotipi.
Inoltre all’interno dei percorsi di studio è presente un’evidente segregazione formativa che vede una forte presenza di ragazze in corsi con materie umanistiche e sociali, ma solo in piccolissima parte nelle STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Modello socio-culturale che si presenta non solo nell’istruzione ma anche nel mondo del lavoro, ad esempio con la segregazione orizzontale e verticale, con il gender pay gap, ecc. Vediamo quindi nelle occupazioni precarie e nei part-time (spesso involontari) una sovrarappresentazione delle donne, mentre per altre occupazioni meglio pagate e stabili solo gli uomini.
Partendo dalle disuguaglianze che affrontiamo nelle nostre scuole possiamo notare quanto queste siano sistemiche, e spazino in tutti gli ambiti della nostra società tra suddivisione dei carichi familiari, accesso al mondo del lavoro e salari.
Le donne vengono pagate meno come qualunque soggettività “non conforme” agli standard sociali e le donne in situazioni di povertà e classe lavoratrice, migrantǝ, non bianchǝ e non cisgender occupatǝ rimangono drammaticamente rarǝ.
Queste sono tutte disparità che con la crisi economica e sociale pandemica abbiamo visto aumentare drasticamente: già da prima la retribuzione delle donne operaie in Lombardia risultava essere inferiore del 12,1% rispetto alla retribuzione annuale lorda degli uomini lombardi che svolgono la stessa mansione, una percentuale più elevata di gender pay gap rispetto a quella nazionale.
Cosa ci serve dunque per rendere scuole e città degli spazi realmente sicuri ed abbattere la cultura patriarcale?
- Una legge nazionale per un’educazione Sessuale e all’Affettività non eteronormata e incentrata sul piacere e l’autodeterminazione;
- Un albo comunale di associazioni laiche e qualificate a svolgere educazione alla sessualità nelle scuole (per lasciare fuori i cattobigottǝ!);
- Liberare le nostre aule, la didattica e i saperi dal tabù del sesso attraverso la scrittura di programmi di studio che siano antisessisti, inclusivi e rappresentativi;
- Sportelli nelle scuole (anche in DaD!) con funzione di primo approccio e reindirizzamento a consultori e centri antiviolenza;
- Distribuzione gratuita di contraccettivi e assorbenti per studentǝ a carico della regione;
- L’approvazione in tutte le scuole del Codice Antimolestie ed un osservatorio cittadino antiviolenza e antidiscriminazione per studentǝ;
- l’accesso alle carriere alias per studentǝ transgender;
- La presenza e la mappatura di consultori cittadini realmente laici e proporzionati allǝ abitantǝ;
- Un reddito di autodeterminazione accessibile a tuttǝ.
Perché se l’educazione sessuale è anche educazione al piacere restituirà alla società una cultura collettiva libera da stereotipi e violenza di genere. Se infatti come capisaldi della sessualità vi sono il consenso e il piacere, principi fondamentali in tutte le soggettività, nessuna pratica sessuale potrà più essere giudicata negativamente e potremo svincolarci da molti taboo presenti, ieri come oggi, nella nostra società.
Ricordiamoci poi che violenza di genere non sono solo commenti sessisti e omobitransfobici, ma anche una didattica in cui le materie vengono narrate dal solo punto di vista maschile.
Perchè in una scuola pubblica orientata verso l’autodeterminazione è necessario un regolamento e sportelli antiviolenza per permettere a tuttǝ di denunciare, e che questi indirizzino lǝ studentǝ nei consultori.
Questi ultimi devono garantire a pieno il diritto all’aborto, anche perché siamo in una regione dove è stata appena rifiutata la proposta di legge “Aborto al sicuro”, che comunque non ci basta, dal momento in cui manca una sanità pubblica, laica, gratuita e pienamente accessibile con o senza documenti, quindi lungi dall’essere alla portata delle studentesse!
Perché non basta ammettere all’interno del Recovery Plan – tra l’altro in grave ritardo rispetto alla portata del fenomeno – l’ingiustizia dell’eccessivo lavoro di cura delegato alla donna: è necessaria una profonda inversione di rotta con un reddito di autodeterminazione accessibile a tuttǝ, incondizionato e individuale. Reddito di autodeterminazione per noi non solo significa rispondere alle difficoltà imposte dalla quarantena, ma permette anche di sottrarsi alla violenza di genere ed al dover accettare di lavorare a qualunque condizione, salariale e di sicurezza.
Questa inversione di rotta non può che partire dalla scuola pubblica, da ripensare da zero. Non possiamo farci bastare l’ora di lezione “anti-discriminazione” della legge Zan.
La scuola dev’essere libera, consapevole e soprattutto transfemminista: uno spazio sicuro, inclusivo e privo di stereotipi sessisti e binari!