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COMO – Testimonianza di un fermo in Svizzera #refugeeswelcome

Oggi, come tutti i giorni, ci trovavamo alla stazione di Como San Giovanni. Verso le sei del pomeriggio, mentre stavamo cominciando ad organizzarci per la distribuzione di aiuti, ci accorgiamo che all’accampamento era tornato un ragazzo che mancava dal giorno precedente. Eravamo alquanto stupiti di incontrarlo, sapevamo per certo che nella confusione generale causata dalle notizie sull’apertura delle frontiere svizzere, alcuni ragazzi, fra cui la maggior parte dei suoi compagni di viaggio, erano riusciti a varcare il confine e a raggiungere la Germania. Convinti che si trovasse nel gruppo dei pochi fortunati non ci eravamo nemmeno preoccupati nel non vederlo più in giro, anzi eravamo sollevati nel saperlo finalmente oltre la frontiera.

Karim (nome inventato per proteggere la privacy del nostro amico che desidera non sia fatto il suo) è un ragazzo di 17 anni. È arrivato in stazione ormai già da due settimane, scappa dall’Eritrea dove un governo instabile ha portato ad un susseguirsi continuo di persecuzioni etniche. Scappa da solo, unico suo aggrappo è la sua piccola comunità, i suoi compagni di viaggio, che hanno percorso con lui la lunghissima strada che partendo dall’Eritrea attraversa il Sahara e la Libia e giunge alla stazione di Como San Giovanni. Karim vuole andare in Germania, per raggiungere suo fratello, ci aveva già raccontato che i suoi genitori si trovano ancora in Eritrea, rientra in quella tanto famosa fascia dei minori non accompagnati.

Incuriositi gli chiediamo immediatamente, quasi scherzando, cosa ci facesse nuovamente in stazione e come mai non fosse partito con il suo gruppo. Ci spiega che lo hanno lasciato solo, è evidente che vorrebbe parlarci di qualcosa, ma non parla abbastanza l’inglese per riuscire a farci capire. Cerchiamo di capire cosa gli sia successo in Svizzera, utilizza parole come “Mangiare”, “Underground”, “Police”, ma non riusciamo a capire cosa stia cercando di dirci. Troviamo una ragazza che riesce a farci da interprete, che ci traduce direttamente dal Tigrino.

Vi raccontiamo quello che Karim ha raccontato a noi.

Era mattina, si era appena sparsa per il campo la voce dell’apertura del confine. Mentre cercava di capire cosa stesse accadendo, Sara, una ragazza eritrea di sua conoscenza, lo ferma, informandolo di una nuova voce, secondo cui la Germania avesse appena annunciato di aprire le frontiere da nord per 2000 eritrei. Aveva già provato più volte a varcare il confine, ma la situazione sembrava ottimale. Decide di provarci ancora una volta. Prende il biglietto e aspetta il primo treno diretto in Svizzera. Sale. Nessun controllo. Il treno parte, supera il tunnel che separa Como dal Canton Ticino e arriva a Chiasso. A Chiasso arrivano i controlli, sale la polizia, gli chiedono il passaporto. Non ce l’ha. Lo fermano, trascinato giù dal treno lo portano in uno stanzino, all’interno della stazione, sede delle guardie di frontiera. La traduzione non è facile, non siamo sicuri di dove sia stato portato. Ci descrive un luogo all’interno della stazione, pieno di polizia, dove viene perquisito e dove viene costretto a lasciare, per la seconda volta, le impronte digitali. Si trova con altre persone, gli perquisiscono lo zaino e al termine lo fanno entrare in quella che lui definisce una “cabina”. Qui lo denudano completamente, “come mi ha messo al mondo mia madre” dice lui, lo perquisiscono ancora, lo fanno girare su se stesso, lo fanno piegare in avanti. Non ci dice oltre, ma ci tiene a sottolineare che lo stesso trattamento viene riservato alle donne, aggiunge solo “a quel punto mi sono pentito di essere lì”. Afferma di aver subito diverse umiliazioni da parte della polizia Svizzera, non entra nel merito, ma dice di averne subite simili solo “in Libia e nel Sahara”, non si aspettava di doverne subire anche qui. Dice dunque di essere stato caricato su un furgone, un furgone blu con i vetri oscurati come quelli che solo il giorno prima avevamo visto lasciare la stazione, insieme ad altre 6 persone, e per quello condotto in un luogo che non saprebbe identificare, a 10 minuti di macchina dalla stazione. Ci dice: “Mi sembrava di essere un sorvegliato speciale, in Eritrea solo i sorvegliati speciali sono trasportati in furgone”. Giunti a destinazione viene introdotto in un bunker, ci tiene a specificare “underground”, sotto terra. Specifica che non si trattava di una gabbia, due camerate divise per sesso, erano già presenti oltre 60 migranti, identificati qualche ora prima di lui. Non riusciamo bene a capire le tempistiche in cui si svolgono i fatti, ma capiamo che a Chiasso è arrivato intorno alle 14.30 e che è arrivato al bunker per le 17.00 circa. Gli mettono due braccialetti al polso, uno bianco e uno giallo, gli fanno compilare e firmare della modulistica e li lasciano lì ad aspettare. Per tutto il giorno non viene servito né un pasto né un bicchier d’acqua. Ci dice, gli eritrei sono molto orgogliosi, lui non avrebbe mai chiesto da mangiare alla polizia, ma verso le 21 un gruppo di nigeriani comincia a discutere con i secondini, hanno fame, chiedono gli sia portato del cibo. Discutono a lungo, ma alla fine riescono ad ottenere un pasto. Ma dentro i dormitori comincia a mancare l’aria. Parla con la polizia, finge di essere asmatico, riesce a convincerli a fargli prendere una boccata d’aria. Viene accompagnato su per le scale e dice di essere fatto sedere su una “brandina” insieme a un’altra ragazza, giovane anche lei, sempre eritrea. Lei gli racconta la sua storia, è scappata dall’eritrea con suo fratello, morto nel tentativo di attraversare il deserto, arrivata in Italia partorisce un figlio in Calabria, che muore dopo 18 giorni. A quel punto la ragazza viene colta dal panico, in crisi comincia a piangere e si lascia cadere per terra vomitando. Karim chiede l’intervento delle guardie, che chiamino un ambulanza o quanto meno le portino un bicchiere d’acqua, ma viene completamente ignorato e si trova lui a dover soccorrere la giovane donna con i pochi fazzoletti che si è ritrovato in tasca. Specifica anche che la ragazza possedeva dei “documenti medici” che aveva provato a mostrare alle guardie, senza risultati. Verso mezzanotte gli viene intimato di rientrare nel bunker. Lì rimarrà l’intera notte dopo aver passato già più di dieci ore a Chiasso. Saranno svegliati solo la mattina seguente, quando un furgone, un “piccolo bus” come ce lo descrive Karim, li caricherà tutti e 60 per riportarli alla frontiera. Qua sono nuovamente identificati dalle autorità italiane che gli fanno compilare un ultimo modulo e li rimandano alla spera in dio in Italia, a Ponte Chiasso, senza mezzi e lontani dal campo.

Questa ulteriore e ancora più grave violazione dei diritti umani, attuata dalle forze dell’ordine Svizzere nei confronti di un minorenne, ci fa riflettere sulle inevitabili conseguenze di queste nefaste politiche migratorie. Atti violenti e intimidatori nei confronti di chi cerca di passare il confine. Forze “dell’ordine” che commettono azioni disgustose ed inqualificabili che ci fanno ancora una volta chiedere a gran voce l’apertura delle frontiere, come unica soluzione possibile.